Insegnanti e precursori

Susanna Koeberle
6. Dezember 2019
Josef Albers, «Homage to the Square», 1950, © 2019 The Josef and Anni Albers Foundation/Artist Rights Society (ARS), New York/Pro Litteris, Zurich (foto: Tim Nighswander/Imaging4Art)

L’anno del grande anniversario del Bauhaus sta per finire, e sono quasi contenta sia così. Le informazioni mediatiche continue e i resoconti a volontà hanno infatti suscitato in me l’effetto contrario a quello sperato: a un certo punto ne avevo davvero abbastanza del Bauhaus. Questo finché non ho ripreso in mano il suo manifesto, scritto da Walter Gropius: in quel momento ho dovuto ammettere che l’idea di «raccogliere tutte le applicazioni artistiche in un’unica unità» non è superata, ma anzi tutt’ora attuale. Anche il ruolo dell’artigianato nell’architettura viene giustamente rimesso in discussione. Resta il fatto che da qui a voler creare un uomo nuovo o addirittura una nuova fede il passo risulta esageratamente lungo. Pathos e nostalgia diventano presto sinonimi di vecchiume e rigidità – progetti così dogmatici hanno infatti spesso le proprie zone d’ombra. L’esperimento Bauhaus è comunque durato 14 anni: fino a quando, nel 1933, la scuola non fu costretta a chiudere sotto le pressioni nazional-socialiste. Josef Albers fu il primo studente della scuola a diventare in seguito anche insegnante e vice di Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore in carica al Bauhaus. Dopo la chiusura, accompagnato dalla moglie Anni (anche lei studentessa e insegnante), lasciò la Germania per emigrare negli Stati Uniti, dove insegnò per diversi anni al Black Mountain College prima di passare alla Yale University. Per alcuni brevi periodi, nel 1954 e nel 1955, fece ritorno in Europa per insegnare alla Schule für Gestaltung di Ulm, su invito del suo amico ed ex allievo Max Bill, all’epoca direttore della scuola.

Josef Albers, studio sul colore per «Homage to the Square», n.d., © 2019 The Josef and Anni Albers Foundation/Artist Rights Society (ARS), New York/Pro Litteris, Zurich (foto: Tim Nighswander/Imaging4Art)

Nel periodo trascorso al Bauhaus, Josef Albers ha lavorato in prevalenza col vetro; solo più tardi, negli USA, ha cominciato a occuparsi di pittura. A questa importante fase del suo lavoro è dedicata ora una mostra alla Villa dei Cedri. Il museo è specializzato in opere su carta e ne possiede una vasta collezione. L’intenzione della direttrice Carole Haensler è quella di portare l’attenzione su coloro che hanno saputo rinnovare il discorso artistico dopo la guerra, tramite una serie di mostre dedicate a personalità importanti per la storia dell’arte. Josef Albers può senz’altro essere considerato una di queste, in particolare grazie al suo operato in veste di insegnante, in grado di influenzare un’intera generazione di artisti americani (come ad esempio i rappresentanti della «Minimal Art»). La mostra intitolata «Josef Albers: Anatomia di Omaggio al Quadrato» ruota attorno al lavoro di ricerca artistica e intellettuale incentrato su colore e percezione. La serie «Homage to the Square», iniziata nel 1950 e sviluppata fino al 1976, l’anno della sua morte, rimane la sua opera più conosciuta. La composizione di quadrati colorati posti uno dentro l’altro, mette a confronto l’osservatore con le proprie percezioni personali. 

Josef Albers, studio per «Homage to the Square»: «Unexpected Turn», circa 1959, © 2019 The Josef and Anni Albers Foundation/Artist Rights Society (ARS), New York/Pro Litteris, Zurich (foto: Tim Nighswander/Imaging4Art)

«Qual è la verità?» sembra essere la domanda posta da queste opere. La ricerca di Albers è letteralmente una forma di educazione delle nostre abitudini visive. Capitava infatti che egli desse delle indicazioni su come creare lavori di questo tipo: non gli importava quindi di esibire le sue capacità, ma di rendere possibile uno scambio e illustrare il processo artistico. Più tardi, di «Squares», fece produrre anche delle serigrafie. Attraverso una serie di disegni preparatori esposti a Bellinzona, è possibile comprendere il carattere evolutivo di questo lavoro. L’intimità dei locali e la piccola scelta di opere, creano una sorta di calma a favore della percezione. I colori assumono vita propria e la loro interazione diventa fisicamente percepibile: le opere sviluppano un’azione magnetica particolare. Per quanto riguarda la nostra capacità di assimilazione, nonostante il bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti giornalmente, non siamo evoluti poi molto. La mostra vuole inoltre essere un’implicita riflessione sul ruolo del museo nella nostra società – intento realizzabile anche senza interminabili bla-bla sul Bauhaus.

Capire gli spazi urbani

Quale ruolo ricoprano gli insegnanti, sia nel nostro sviluppo personale che su un piano sociale, diventa chiaro anche grazie al «Seminario Internazionale di Progettazione» di Monte Carasso. Il Seminario, creato da Luigi Snozzi nel 1979, è parte integrante del progetto concernente il paese sviluppato «a passo d’uomo», come usa dire egli stesso, e viene oggi curato da quattro dei suoi allievi: Mario Ferrari, Michele Gaggetta, Giacomo Guidotti e Stefano Moor. Ufficialmente Snozzi è ancora ancora il direttore, anche se si è ritirato quasi del tutto, cosa legittima a 87 anni compiuti. Il contributo più importante lo ha reso nel ruolo di insegnante, come è stato sottolineato più volte durante la consegna del Prix Meret Oppenheim. Portare avanti il suo pensiero è una delle intenzioni cardine del Seminario, proposto ancora annualmente. Se in principio l’attenzione era rivolta allo sviluppo di Monte Carasso come paese, da qualche anno questa è stata indirizzata a questioni di carattere urbano il Bellinzonese. Quando il sindaco si rivolse Snozzi sul finire degli anni settanta, l’intento era semplicemente quello di commissionargli la costruzione di una scuola.

Il lavoro di Snozzi ha molto contribuito all’identità urbana di Monte Carasso. Tutto iniziò con il semplice incarico di costruire una scuola. (foto © Filippo Simonetti) 

Questo processo non è stato semplicemente dettato dall’alto: si è sviluppato con la collaborazione del sindaco e della popolazione. Fino ad oggi, il paese è stato testimone di una forma di crescita genuina che grazie a poche regole (per il piano regolatore, Snozzi ne ha definite sette) mantiene una struttura paesana e permette di densificare in modo intelligente. Questo non rende i singoli edifici più belli, ma crea una forma esteriore riconoscibile. Lo sviluppo demografico di Monte Carasso dimostra che anche la popolazione favorisce questo processo. Intanto il lavoro sul territorio continua: lo sviluppo urbano sul Piano di Magadino obbliga a una pianificazione accurata. Questo perché la situazione geografica, con il fiume Ticino a valle e le montagne ai lati, fornisce un corsetto ma non rende la situazione più semplice, anzi. Che per un concorso aperto a livello internazionale, con l’intenzione di sviluppare un masterplan per Bellinzona, non ci si rivolga agli esperti di Monte Carasso sorprende. In ogni caso, il loro modello bottom-up si è rivelato vincente.


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