Lisetta Carmi, fotografa

Nadia Bendinelli
13. Juli 2022
Illustrazione © World-Architects

A sei anni dichiarò che non si sarebbe mai sposata: «padroni non ne voglio». Lisetta Carmi mantenne questa risolutezza per tutta la sua lunga vita, cambiando strada, a volte in modo repentino, se lo riteneva necessario. Un ideale, quello dell’indipendenza, nato forse osservando la vita di famiglia. La madre, nonostante fosse molto considerata e rispettata, ricopriva un ruolo subordinato. Un ideale di libertà e di giustizia, maturato poi per cause politiche e sociali. Nata a Genova nel 1924 da una famiglia ebrea, Lisetta imparò presto sulla propria pelle il significato di parole come impotenza, persecuzione ed emarginazione.

Nel 1938 le leggi razziali le imposero di abbandonare la scuola. Continuò a studiare in casa mentre i suoi fratelli maggiori vennero mandati in Svizzera. La maggior parte del suo tempo lo dedicava al pianoforte, la sua grande passione. Finché, nel 1943, anche il resto della famiglia fu costretto a una fuga notturna per passare il confine. Almeno quella notte, la fortuna sarebbe stata dalla loro parte. Lisetta frequentò il Conservatorio di Zurigo per due anni prima di poter tornare in Italia e diplomarsi in pianoforte al Conservatorio di Milano. Seguì una carriera da concertista che la portò ad esibirsi in Europa e in Israele.

Attivamente impegnata in politica, nel 1960 decise di schierarsi con gli ex partigiani e la classe operaia genovese per protestare contro la decisione di tenere un congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova. Una decisione vissuta come un’offesa rivolta proprio a una città decorata con la medaglia d’oro alla Resistenza. Seppure la pianista ritenesse importante partecipare alla manifestazione, non trovò nessuna comprensione da parte del suo maestro, che si oppose fermamente. Partecipando ai cortei di protesta in un clima particolarmente acceso, avrebbe rischiato di ferirsi alle mani, e allora addio carriera. È probabile che la risposta di Lisetta non stupì soltanto lui: «Se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità, smetto di suonare». E così fece. Non le pesò rinunciare ai guadagni ricavati dai concerti, che a detta sua non erano poi così elevati. Avrebbe potuto continuare a dare lezioni di pianoforte e si immaginava di poter fare le pulizie o la babysitter. Per ventidue anni, il pianoforte era stato l’elemento centrale della sua vita. In quel momento si sentiva però pronta ad affrontare un cambiamento radicale per seguire i suoi ideali – non se ne sarebbe pentita.

Una nuova vita da fotografa

Dapprima per caso, poi con grande impegno e una notevole determinazione, Lisetta si avvicinò alla fotografia. Iniziò con dei piccoli reportage che rivelarono presto il suo talento. Sapeva osservare e desiderava capire. Sarà proprio questo a spronarla nelle sue ricerche: scoprire cosa muove le persone, per cosa vivono. Agiva mossa da un senso di giustizia, conosceva personalmente la discriminazione e la usava come chiave: «Senza sofferenza personale non si può capire quella altrui, e nemmeno provare gioia».

Agli inizi degli anni sessanta venne assunta dal Teatro Duse di Genova come fotografa di scena. Si trattava di realizzare un centinaio di fotografie durante le prove e di svilupparle la sera stessa in modo che fossero pronte per essere distribuite ai giornali la mattina seguente. Allo scopo allestì una camera oscura direttamente in casa. Nonostante una certa preoccupazione iniziale e un commento scettico del regista teatrale – o forse proprio per dimostrare che non era una sprovveduta – seppe sorprendere e si assicurò il lavoro in via definitiva. Tre anni più tardi, decise che era arrivato il momento di abbandonare le quinte per il mondo reale. Il teatro le aveva permesso di acquisire un’ottima preparazione tecnica e l’abilità di riconoscere e catturare le immagini più espressive.

Lavorò per il comune di Genova, fotografando varie vicende cittadine e le realtà delle diverse classi sociali. Decise di approfondire l’arte della narrazione visiva e si mise d’impegno per realizzare numerosi reportage. Scattava e sviluppava le fotografie, scriveva il testo e le didascalie e spediva il tutto alle agenzie e ai giornali di Milano. Lavorava fino a 18 ore al giorno. In quegli anni frequenta la Società di cultura gestita da Enrica Basevi che le commissiona uno dei servizi che la renderanno nota a livello internazionale. Il progetto «Genova Porto», iniziato nel 1964, diventò un’importante inchiesta per denunciare le condizioni di lavoro degli scaricatori di porto – in genovese camalli. Per aggirare i sorveglianti si finse la cugina di un camallo, curiosa di vedere come funziona il porto. I lavoratori sapevano che non era figlia di operai, ma capivano che stava dalla loro parte. Mentre lei fotografava, scaricavano corpi congelati di animali dalle navi frigorifere, passando più volte da temperature sotto zero al caldo più estremo. Altri scaricavano fosfati o merci pesanti, protetti solo da stracci. I turni di lavoro erano massacranti. I camalli erano obbligati a presentarsi puntualmente nella Sala della chiamata, dove venivano assegnati i compiti. Chi non veniva chiamato era costretto a tornarsene a casa. Le fotografie vennero esposte in una mostra itinerante che terminò nell’Unione Sovietica.

«Ho fotografato per capire.»

Lisetta Carmi

Un libro «scandaloso»

Tra i suoi lavori più noti, e senza dubbio il più criticato, troviamo quello sui travestiti di Via del Campo. Nel 1965 un caro amico invitò Lisetta a una grande festa di Capodanno nel noto quartiere. Nacquero così le prime fotografie di una lunga serie, sviluppata nell’arco di sei anni. Lisetta regalò alcuni scatti a ognuno dei travestiti presenti alla festa. Un gesto semplice ma di particolare valore in quell’ambiente: in lei trovarono un interesse sincero, privo di pregiudizi. Probabilmente un altro fotoreporter sarebbe corso al giornale per vendere le fotografie a un prezzo considerevole: era infatti molto difficile accedere alla vita privata dei travestiti. Lisetta inizia quindi a entrare nelle loro case e nella loro intimità. Vivevano spesso in brutti appartamenti e intrattenevano i clienti nelle camere accessibili dalla strada. Non conoscendo le lingue, capitava che chiedessero a Lisetta di tradurre e trattare i prezzi con gli stranieri. La pregavano sempre di avvisarli che erano uomini.

Lisetta li chiamava donne, perché era quello che loro volevano essere, anche se le riusciva difficile comprenderlo. Lei, già da bambina, avrebbe preferito essere un maschio, apparire come una persona semplice, senza fronzoli o abitini, e non essere confinata in uno stereotipo. Anche da adulta non riusciva ad accettarsi completamente come donna: non perché volesse essere altro, ma a causa di quel ruolo imposto, che sembrava indissolubilmente legato alla condizione femminile. Gli anni passati a contatto con i travestiti la aiutarono di riflesso ad accettarsi per quello che in realtà era: una persona che viveva senza un ruolo predefinito. Scoprì la felicità nell’essere una donna che rifiutava un ruolo tipicamente femminile, ma non l’appartenenza al genere.

La fotografia le forniva i mezzi per contrastare l’emarginazione e i maltrattamenti subiti da quella variopinta comunità, che evidentemente agiva al di fuori delle convenzioni borghesi. Proprio con questa intenzione, e dopo i rifiuti di alcuni editori, nel 1972 il progetto si condensò in un libro con foto e testi di Lisetta Carmi, e interviste condotte dallo psichiatra Elvio Fachinelli. Ma l’Italia, nonostante le recenti rivoluzioni legate all’emancipazione femminile e sessuale, non era pronta per questa pubblicazione. Si spesero critiche accese e i protagonisti degli scatti vennero etichettati da alcuni come «malati» o «schifosi». Lisetta replicò senza mezzi termini: casomai gli schifosi erano i loro clienti, perlopiù perbenisti genovesi e preti. Quando le giunse voce che le librerie di Milano, grandi nomi compresi, tenevano il suo libro nascosto sottobanco «per non urtare la sensibilità dei clienti», decise di verificare di persona. Senza spiegare chi fosse chiedeva del libro «I travestiti», e quindi perché lo tenessero nascosto. La risposta dei commessi era sempre la stessa: un libro scandaloso, orrendo. Le recensioni sui giornali genovesi, seppur positive, consideravano «matta» l’autrice. A Lisetta l’appellativo non dispiaceva affatto. Il libro rischiò di finire al macero. A salvarlo ci pensò la scrittrice e giornalista Barbara Alberti, che acquistò le copie invendute per regalarle agli amici. Oggi il libro è diventato un apprezzato pezzo da collezione, ormai difficilmente reperibile.

Incontri

Tra le sue fotografie storiche ci sono quelle scattate al poeta Ezra Pound nel 1966, con le quali vinse il premio Niépce. Le realizzò in pochissimi minuti: era l’11 febbraio e su invito del direttore dell’Ansa di Genova, intenzionato a condurre un’intervista, si trovò davanti alla porta di casa dell’influente e controverso poeta. In quell’occasione, per completare il servizio fotografico bastarono alcuni attimi rubati. Bussarono. Lisetta era pronta, con l’obiettivo puntato – scattò appena Pound aprì la porta, spettinato e in vestaglia. Dopo un momento di smarrimento e una smorfia, sparì dalla loro vista, la porta si chiuse. Tra le parole di ammirazione, spiccano quelle di Umberto Eco: quei ritratti raccontano molto più Pound delle centinaia di articoli che sono stati scritti su di lui.

Lisetta viaggiò molto per realizzare i suoi reportage, sempre accompagnata dal desiderio di capire, di scoprire e di dare voce a chi non può parlare. Ma dopo il 1976 la sua vita cambiò completamente ancora una volta. Durante uno dei suoi viaggi incontrò Babaji, un maestro spirituale indiano che la invitò ad aprire un Ashram a Cisternino, in Puglia. Nel corso degli anni, il centro attirò migliaia di persone da tutto il mondo. Lisetta sentiva di non aver più bisogno della macchina fotografica per capire sé stessa e gli altri, ma di un rapporto più diretto con le persone. Era pronta per una nuova esistenza e abbandonò la fotografia – ma questa è un’altra storia.

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